Dietro il banco dell’Osteria del Sole non c’è più Luciano Spolaore, che ha abbassato la serranda per l’ultima volta l’inverno scorso, ma i figli Nicola e Annachiara con lo zio Renato.
Adesso, dopo la sua morte, sono loro a conservare intatto questo luogo sfuggito all’omologazione commerciale e per questo irripetibile. “Non toccheremo niente” dice Nicola ricordando il padre “terrorizzato già all’idea di dare una mano di bianco”. Certo, ci sono volute parecchie deroghe consentite dallo status di bottega storica ottenuto grazie al Comune, ma alla fine di questo piccolo scenario di una Bologna anni’50 si salverà inalterato, vivo senza irrigidirsi in un museo.
È bastato che si spargesse la voce e già il primo giorno di riapertura,
i clienti sono accorsi numerosi come “il Sole” non avesse mai chiuso. Ancora col suo modello di socialità che mischia l’imprenditore miliardario al pollivendolo. “Mio padre diceva che l’osteria è il posto più democratico che c’è”. E come ogni democrazia esige delle regole. Una è scritta si una vecchia insegna: ‘In questo locale è vietato cantare e suonare e la consumazione è obbligatoria’.
Forse è per quello che all’Osteria del Sole, unica anche in questo, non hanno mai abbondato cantanti e musicisti: qualche sortita di un silente Guccini e nessun altro. “Tutti devono poter chiacchierare senza che nessuno prevalga” chiosa Nicola citando il padre. Democrazia assoluta. Compreso il fatto che ‘al Sole’ si beve soltanto e per mangiare ciascuno si arrangia. L’osteria è l’unico locale dov’è consentito ‘il pranzo da importo’, che significa comprarsi il cibo altrove per gustarselo sui tavoloni consumati dallo struscio dei gomiti di una dozzina di generazioni. Un’allegra improvvisazione contraddistingue da sempre il posto. Quando qualcuno chiedeva a Luciano Spolaore l’ora di chiusura, lui rispondeva impassibile: “Apro e chiudo continuamente”.
Non amava la consuetudine, Luciano. Padovano di Solesin, terra dove ‘si piantano i fagioli con lo schioppo’, era finito a Bologna grazie allo zio Aldo Canazza, ciclista di vaglia compagno di Binda e amico di Coppie e Bartali. Nel ’40, pedalando s’era imbattuto nel locale di vicolo Ranocchi datato 1465 e aveva convinto il padre di Luciano a rilevarlo. Canazza e Luciano, entrato a bottega a otto anni, diventano l’anima del locale. Rosette ripiene di mortadella e uova sode le specialità, vino e liquori la vera attrattiva. Le uova sode stavano in vassoi e gli avventori rompevano il guscio per mangiarseli col sale.
Poi qualcuno fece uno scherzo mettendo uova fresche e ben presto i tavoli divennero frittate. La democrazia, quel giorno modificò la sua carta costituzionale e bandì le uova dall’osteria.
Una volta venne persino Alexander Dubcek ma fu trattato come tutti gli altri. Anche i sindaci del dopoguerra sono passati dal bancone
“tranne Cofferati” puntualizza Nicola. Ma il ricordo più bello è quello di padre Marella, veneto anche lui come gli Spoalore. “Dopo una notte a chiedere l’elemosina si metteva su una sedia, allungava le gambe su un’altra e sprofondava nel sonno. Mio padre per svegliarlo gli tirava la barba che era l’unica cosa che lo mandava in bestia. Ma in fondo era un gesto d’affetto”.
Di Valerio Varesi da La Repubblica, 6 luglio 2008
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